STEVIE WONDER: FULFINGNESS FIRST FINALE, 1974

“Fulfillingness’ First Finale” ha compiuto 50 anni nel 2024. Difficile scegliere tra gli album preferiti di Stevie Wonder. Innegabile ergerlo a capolavoro della raffinatezza soul di tutti i tempi. Un manipolo di ospiti da brivido (Michael Sembello, Minnie Ripperton, Impressions, Jackson Five, Jim Gilstrap, e non solo…) per una lista di tracce dipinte nell’arcobaleno, da occhi che non possono più vederlo da una vita. Eppure quegli occhi meriterebbero più di altri di poterne scorgere ogni giorno della sua vita, ogni loro piccola fulgida sfumatura. Che stranezze che commette la vita, non è vero?

Per emozionarsi, per commuoversi, per gioire, per danzare in un crogiolo di stati d’animo pennellati da un artista che, a 24 anni, aveva già stabilito da un po’ i trigger point tra la black music e il pop intagliato nell’ebano (e avorio) senza che nessuno possa, a tutt’oggi, proferire parola, se non per elargire encomi. Insieme a Innervisions, Songs in the Key of Life, Music of my Mind e Talking Book, questo album si salda come sorta di riconciliazione taumaturgica con l’universo extra-terrestre. “Creepin”, “Smile Please” e “It Ain’t No Use” potrebbero essere ridefiniti tranquillamente negli stilemi di un jazz carezzevole e immortale e dovrebbero essere assolutamente insegnati a scuola. “They Won’t Go When I Go”, poi, È musica classica. Ma è ingiusto, aver citato queste senza ricordarne altre, perché siamo di fronte, se non l’abbiamo ancora chiaro, alla beatitudine in chiave animica.
La classe inconfondibile di una leggenda passa anche da questo solco. E non ho bisogno di altre parole per descriverlo. Non ascoltarlo, non averne una copia è quasi un reato.
Pino Morelli

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