Informazioni su Pino Morelli

Dj, Giornalista, , organizzatore di eventi musicali, culturali e olistici..Ex direttore responsabile della rivista XTimes.

RUFUS AND CHAKA KHAN: LIVE “STOMPIN AT SAVOY”, 1983

Il ricordo è quello di un appena diciassettenne che si ritrova nella radio (da lui frequentata per la conduzione di un suo programma che egli presenta giornalmente) e anche fra le mani, un album di una cantante ancora a lui sconosciuta (e, per la verità, anche alla maggior parte degli ascoltatori italiani), o per lo meno fino a quel momento – e precisiamolo: ben un anno prima della super hit di “I Feel For You” – ma dotata di un repertorio evidentemente così maturo tanto prodigioso dafarne uscire addirittura un doppio lp dal vivo. Col revisionismo storico de noartri, potremmo dire che ci saremmo dovuti ricordare anche la versione originale di “I’m Every Woman”; ma per me sarebbe stato chiedere troppo, ed evviva la verità!

È così che ho conosciuto “Stompin at the Savoy”, uscito ufficialmente il 10 agosto 1983 negli USA ed approdato anche da noi, frangia di ragazzi desiderosi di una marcia in più, di una spinta funk-soul e, diciamola tutta, anche qualcosa che si distaccasse ogni tanto da quel synth-pop imperante persino ormai nella black music. Avendo conosciuto già la Dazz Band, i Fatback e compagnia bella, no, non conoscevo altresì i Rufus. Che, attenzione, giunsero alle mie orecchie anche mesi prima del ritorno in pompa magna di Tina Turner, tanto per associazione vocale, vitale e capelluta con Chaka. E sono felice di averlo imparato ben prima che il sottoscritto raggiungesse la maggiore età. Non era facile conoscere a quei tempi certe cose, ed è inutile che lo ricordi agli ascoltatori del mitico programma Rai “Stereo Notte”, unico faro nell’etere nel buio della radiofonia coeva. Erano gli ultimi gemiti gloriosi degli Earth Wind & Fire, mentre nelle mie orecchie giravano i ritrovati Benson di “In Your Eyes”, o il Jarreau di “Boogie Down” e “Mornin”, giusto per intersecare il tutto con alcuni pertinenti paragoni.
Questo doppio vinile è ricordato anche (o soprattutto, a seconda delle opinioni) grazie ad un ricordo su tutti, e che ricordo: l’inedito registrato in studio, la perla nera di tutti gli anni ’80, uno dei brani “black” più originali che la discografia possa ricordare: “Ain’t Nobody”, vincitore poi nell’84 di un Grammy Award come “Best R&B Performance”! Su quelle scritte bianche in fondo rosa all’interno della confezione a doppia apertura dei vinili, poco si scorgeva la generosa e pur lunga dedica di Quincy Jones, firmandosi con un introduttivo “a fan”, il che è tutto dire. Basta sentire i titoli di coda del monumentale documentario di Quincy del 2018 contenente lo splendido inedito “Keep Reachin” (interpretato proprio da Chaka) per capire l’inossidabile amicizia che lega questi grandiosi nomi dello scenario musicale afroamericano, patrimonio dell’umanità. A proposito, una curiosa storia sviluppò il karma di “Ain’t Nobody”, se pensiamo che sarebbe potuto finire addirittura nel glorioso album “Thriller” di Michael Jackson, soltanto se l’autore-tastierista di Rufus non lo avesse offerto come lancio per la band e quindi per il doppio in questione. Perchè proprio Quincy aveva invece bussato alla porta del convento per accaparrarselo… Cosa ne penso? Meglio che sia andato per la voce graffiante di Chaka!
Tornando all’album, la parte dal vivo è eccezionale nel suo offrire un sublime compendio di funk ed R&B, sciorinando brani davvero senza tempo. Il quarto lato, quello registrato in studio che si apre con la già citata hit apprezzatissima anche da queimoltissimi dj che se ne intendono di cose belle, offre un seguito eccellente con il tris che chiude, a mio modesto avviso, un periodo incredibile, siglando la fine di un certo sound, a fronte della provvisoria invasione plastificata che rovinò gran parte di artisti e di musica del periodo successivo all’83, almeno per quanto riguarda questo genere. “One Million Kisses”, “Try a Little Understanding” e lo standard che fu di Etta James “Don’t go the Strangers”, qui magnificamente riproposto dalla cantante originaria di Chicago, si potranno apprezzare per la loro eccellente produzione e groove.
Nella musica dei Rufus c’era sostanza, sangue nelle vene, energia primordiale e tanta esperienza metabolizzata in anni di ascolto dei padri fondatori, dal blues in poi. Chaka aveva già dato tanto, nonostante avesse appena compiuto soltanto trent’anni all’epoca di questo live. Oggi, è ancora una splendida settantenne. 19 ne aveva quando debuttò nel ’72 con il suo gruppo, per poi decollare autonomamente, attraversando ogni genere le si qualificasse elegantemente come un vestito attillato, orbitando tra la Disco e il Funky, per poi approdare ad un successo più commerciale dance.
Era giusto salutare questo pur storico doppio album registrato al Savoy Theatre di New York pensando che, quando gira un basso a palla con su una base ritmica da capogiro e quando i fiati rivestono le pareti del muro sonoro affiancandosi ad una voce che ti fa persino girare la testa, niente si conserva meglio. Ricordi per me formativi, antiossidanti, nutrienti. Meravigliosamente impressivi di un’epoca che ci ha dato tantissimo.
Pino Morelli

DONALD FAGEN: “THE NIGHTFLY”, 1982

Mi piace ricordare, mi piace celebrare. Ed è giusto ricordare che questa recensione fu pubblicata originariamente nell’ottobre del 2022 sulla pagina facebook di “Stereo Notte – il Libro”, ottenendo quasi 1000 like e un paio di centinaia di commenti entusiastici a corredo di ci che segue e che pubblico felicemente anche sul mio sito!

Era infatti il giorno in cui si ricordava l’uscita di uno dei 10 album fondamentali per la mia vita, e quindi della personale discografia. Il 1°ottobre 1982 arrivava nei negozi “The Nightfly”, di Donald Fagen, la voce di un gruppo che forse molti di voi curiosi di questo articolo ricorderanno. Per comprendere bene perchè questo disco sia così importante, è giusto capire. Ma per farlo, occorrono delle parole da spendere e, magari, del vostro tempo da impiegare.

Personalmente, all’epoca, avendo compiuto appena 16 anni, mentre l’autore di quel disco ne aveva quasi il doppio, per la precisione 34, dei suoi quali ultimi 11 (da “Do It Again”, in pratica) profusi a fare la storia di certa musica che definiremmo limitatamente “vocal fusion”, dobbiamo ammettere che ero ancora troppo piccolo e inesperto per arrivare a comprendere e afferrare molte di quelle sfumature che solo oggi mi appaiono più chiare. Eppure avevo capito che quel disco 1) faceva la differenza 2) mi faceva sentire bene e “importante” 3) suonava da dio in radio 4) era per me qualcosa di inarrivabile.
Quando uscì questo album, ascoltai un videoclip in tv sulla RAI, a “Mister Fantasy”, il mitico programma condotto da Carlo Massarini, e poi entrai in radio, lo stesso mese dello stesso anno. Come dimenticarlo? Da qui si evince una cosa importante: molti di noi erano per davvero degli “young adult”: c’è chi si atteggiava a voler sembrare “grande”. Personalmente, amavo la buona musica, certe melodie, e basta. Stavamo imparando, ma era già “tutto dentro” e tutto scritto, probabilmente… All’epoca è giusto ricordare che si andava a ballare in giacca e cravatta, e c’era tutta un’altra mentalità, a proposito di “buon gusto”. Quella musica si sposava al meglio, insomma, nel suo insieme. Ma non è questo il punto. “The Nightfly” è un album strepitoso, dal primo all’ultimo degli 8 pezzi! Suonava come oggi, cioè straordinariamente bene. Nel tempo imparai il perché:
1) perchè lui era già la mente degli Steely Dan, ovvero un gruppo fusion-rock coi controcazzi
2) Perchè quello era il primo album solistico, senza Walter Becker
3) …ma tanto c’era un supergruppo a suonare in questo debutto, che te lo sogni ancora oggi: Jeff Porcaro, Michael e Randy Brecker, Larry Carlton, Dean Parks, Will Lee, Larry Carlton, Marcus Miller, Abraham Laboriel, Michael Omartian, Greg Phillinganes, Valerie Simpson ai cori…
La melodia, gli accordi, i ritornelli, il respiro orecchiabile e meticolosamente impressivo di questa musica, ha fatto sì che “The Nightfly” arrivasse nel cuore e nel sangue di milioni di fans, decretandosi uno dei pochissimi album di estrema qualità e godibilità d’ascolto come pochi altri al mondo si son potuti permettere.
Se poi ci mettiamo che un dj speaker scozzese si inventò lo pseudonimo, ovvero “Nick The Nightfly” per diventare il più famoso intrattenitore smooth jazz della radiofonia italiana, tutto torna. Sto parlando ovviamente proprio di quel “Nick” di Montecarlo Nights…
Naturalmente, la cover del disco fa la sua differenza: come non rivederesi in quel dj che sa tanto di anni ’50-’60?
E’ un album traumatico, anzi taumaturgico.
E’ la voglia di vivere, di viaggiare anche stando soltanto in casa.
E’ desiderio di esplorare la bellezza del jazz, senza per forza entrare nei fumosi meandri della musica colta.
E’ estate perpetua, con la voglia di skyline e drink fruttati.
E’ la necessità di alzare il volume, perchè fa bene al cuore.
E’ la voglia di camminare attraverso gocce di pioggia.
E’ intimità, al limite del suo pudore. Ma anche condivisione per mirate affinità elettive.
E’ il non tempo che va e viene, in un flusso continuo, di quelli che “tu invecchi, ma questo disco no, perchè ci sotterrerà fino a che esisterà il bello nella vita”.
“I.G.Y.”, da portarsi in limo.
“Green Flowers Street”, da notturni radiofonici interminabili.
“Ruby Baby”, da invito al ballo di fine anno in una dimensione parallela.
“Maxine”, beato a chi c’era veramente a “Mexical City”.
“New Frontier” e non ci si ferma più.
“The Nightfly” quale cravatta mi metto oggi per andare al “Lenny’s Club”?
“The Goodbye Look” la vasca da bagno bolliva anche senza idromassaggio.
“Walk Between the Raindrops” che l’Hammond sia con noi. Anche durante un acquazzone.
Sono passati più di quarant’anni., ed io stento ancora a crederci.
Che Dio ti benedica, Donald!
Pino Morelli

Everything But The Girl: “When All’s Well”, 1985

“When All’s Whell”: Un singolo di puro pop a cui sono felicemente legato, per via degli spensierati momenti trascorsi durante gli anni delle dirette (comunemente definiti “programmi”) radio. Era il 1985… Gli Everything But The Girl avevano tirato fuori un secondo album, più rock oriented e quindi con sonorità decisamente differenti rispetto al debutto, che ho sempre adorato per via di quel sapore tutto jazzato, da me sempre apprezzato e conosciuto già poco prima, ai tempi di “Cafe Bleu degli StyleCouncil, quando una all’epoca sconosciuta Tracey Thorn vi cantò una liquorosa slow song da svenimento. Occhio alle due inedite b-side (all’epoca della prima emissione discografica): le nostalgiche e affascinanti chicche intitolate: “Heaven Help Me” e “Kid”.

Nonostante la svolta del gruppo (e persino il netto cambiamento qualitativo in ambito di resa acustica) in verità all’epoca da me non molto gradito, adoro follemente il singolo in questione degli EBTG! Ha un respiro eternamente giovane e fresco, primaverile! Ovviamente da sentire ”quando tutto va bene”, ahahah!

Pino Morelli

CHINA CRISIS: “Working Fire and Steel”, 1983

Tra gli album fondamentali per il percorso narrativo e formativo del synth pop inglese generato negli Anni 80: “Working With Fire and Steel” dei fantastici Chins Crisis che, solo qualche anno dopo, videro il tocco (non sappiamo ancora per quale astrale convergenza, notizie ufficiali a parte) di Walter Becker, alias la metà del glorioso duo degli Steely Dan assieme a Donald Fagen.
Qui però parliamo del 1983, anno di consacrazione anche di quel sottogenere che è la corrente “New Romantic” a cui il gruppo di Liverpool sicuramente può annoverarsi, con quel sound alla Vince Clarke (Depeche Mode, poi Yazoo) per intenderci, che sapeva infondere afflati soul persino alle più fredde tastiere dell’epoca, assieme a quei bravi ragazzi della OMD, giusto per fare soltanto qualche esempio pratico.
Dopo il discreto debutto discografico avvenuto nell’82 (attenzione però: discreto è l’album, ma magnifiche sono alcune delle canzoni in esso contenute!), i China Crisis sfornano questo gioiellino di 33 giri che è accompagnato – caso da evidenziare – da altri e.p. da capogiro che vanno a completare un portafogli di long version ma sopratutto di b-sides così stupende e coloratissime, da gridare quasi al miracolo.
Basti approfondire i 12″ del singolo omonimo all’album, per l’appunto “Working Fire and Steel” (con 2 strumentali da capogiro che rimandano a Cure e Durutti Column…), poi di “Tragedy and Mistery” e del maxi single più famoso e accorato, con la stupenda “Whishful Thinking”, per comprendere di quale patrimonio artistico stiamo trattando.
La pausa di quasi due anni proietterà poi i China Crisis praticamente in un’altra era e dimensione (il potere di cambiamento musicale degli Eighties, sarebbe quasi materia universitaria da affrontare…), indubbiamente non meno affascinante, ma di certo diversa da quegli irripetibili momenti racchiusi nei primi due album.
Risentirli dopo decenni mi fa tornare sicuramente adolescente, ma soprattutto conscio, oggigiorno, di che capitale avevamo a disposizione, senza nemmeno quasi rendercene conto!
Pino Morelli

“BREAKAWAY”, di Art Garfunkel, 1975

“Breakaway”: Compie mezzo secolo tondo tondo il secondo album solistico di Art Garfunkel. Uscito nell”ottobre del 1975 in USA, l’opera del cantante, ormai orfano del suo compagno di avventure e successi musicali Paul Simon, non brilla di luce propria, pur facendosi portavoce – più di altre sue opere solistiche – di un giusto compendio sentimental-popolare che da sempre si presta alla voce di un cantante dalle indiscusse peculiarità vocali e che, soprattutto, ha fatto la storia della “Musica Leggera”.
Cos’ha quindi l’LP “Breakaway” di tanto speciale da essere ricordato da me? La forza delle sue azzeccate interpretazioni. Che, in altre opere hanno lasciato spazio soltanto a momenti melensi e mancate aderenze qualitative. Un album, tra l’altro, toccato da singolarità non indifferente, dato che la prima traccia del lato B offre (e si troverà inclusa, parallelamente all’uscita coeva di un ennesimo stupendo album solistico di Simon e di un greatest hits della coppia) il meraviglioso ritorno, una tantum, della coppia con il prodigioso singolo “My Little Town” (finito ovviamente nella top 10 della classifica ufficiale USA) scritto da un motivatissimo Paul Simon e interpretato con solenne partecipazione corale dai due incredibili protagonisti di una delle stagioni più luminose del patrimonio pop mondiale.
L’album di Garfukel si apre poi con una pertinente e toccante cover di Stevie Wonder: “I Believe (When I Fall In Love It Will Be Forever) che conferma il talento interpretativo di un Garfunkel in grande melange artistico. Prova attestata da un altro singolo (questo finì invece n.1 in Inghilterra e ancora top ten nel Billboard U.S.A.) intitolato: “I Only Have Eyes For You” che tutti ricordano nella celeberrima prima versione del 1959 (facente parte anche della nutrita e storica raccolta-O.S.T. di “American Graffiti”) cantata dai Flamingos. Nella traccia omonima dell’album, “Breakaway” per l’appunto, non può passare inosservata la presenza di Crosby & Nash (assieme a Bruce Johnston dei Beach Boys) nel coro di una canzone non certo miracolosa ma molto bella. Così come l’altra ennesima delicata cover, “Disney Girls” che fu proprio dei Beach Boys e che per la quale ancora Johnston dà manforte con la sua firma vocale. Tralasciando l’autentica pecora nera dell’album, ovvero il prescindibile rifacimento di “Agua de Marco” di Jobim (veramente di cattivo gusto sia vocalmente, sia come arrangiamento), è in un’altra cover che il Garfunkel eccelle notevolemente, grazie alla classicissima “99 Miles from L.A.” di Hal David & Albert Hammond, che fu portata al successo paradossalmente proprio nello stesso anno da Hammond, decretandosi come uno dei pezzi più ricantati da molti altri artisti (da Iglesias a Nancy Sinatra) e trasmessi da sempre nelle hit radio. In definitiva, qualcuno a sua ragione potrebbe anche dire che molte delle opere solistiche di Art Garfunkel (privato della forza compositiva del suo ex esimio collega) siano idealmente preferibili come musica “da ascensore” o come sottofondo da RSA, e ci può anche stare, ironicamente o meno parlando. Ma sfido chiunque a darmi un altro, un solo altro album di soft rock maschile che possa sostituirsi a questo, facendo sempre i dovuti distinguo tra artisti e sottogeneri.
Perchè, come sempre, il tempo passa, ma la musica resta. E al momento giusto, “Breakaway” fa il suo dovere, magari e perché no, abbracciati al proprio partner, dove non manchi mai il puro sentimento, per chi sa e riesce a coltivarne ancora gli umori. Pino Morelli, 2025

Style Council: “Confessions of a Pop Group”, 1988

Ultimo “effettivo” album degli Style Council, non considerando l’esperienza all’epoca inedita dell’album di genere house-garage rifiutato dalla casa discografica (e per me fece bene…) poi per inserito nel fantastico box definitivo.

“Confessions of a Pop Group” del 1988 è il canto del cigno di un gruppo memorabile e di un disco che è un capolavoro, forse a metà, con un lato A troppo bello e “instant classic”, al netto di una b-side modaiola, anche se molto fresca,divertente e di qualità, ma troppo diversa volutamente dalle altre canzoni incluse nell’album. I primi 5 brani dimostrano lo spessore incredibile di un Paul Weller ancora nemmeno trentenne (li compirà un mese prima dell’uscita del disco) e di una maturità impressionante: padrone nella partitura, fu capace di tirar fuori una classe che, ancor oggi viene celebrata e osannata da chi crede nella “buona musica”, quella che ti faceva veramente spendere soldi, tempo e apprezzamenti, senza rimpiangere di essere in un decennio che stava già mostrando musicalmente i segni di un imbarbarimento qualitativo, dopo i clamori della prima fulgida metà degli anni ’80. “Confessions” invece, non ha tempo (almeno nella prima parte, come già scritto) essendo sospeso fra ciò che rese famosi TSC (un po’ jazzy, un po’ pop e, ora anche orchestrali) rendendoli unici nel panorama della musica inglese riflessa ovunque. Riascoltarli in una serata d’estate, come in un gelido inverno accoccolati di fronte ad un caminetto fa sempre bene, offrendo emozioni e la certezza di essere rimasti quelli di un tempo, proprio come Paul Weller. Perchè con la buona musica, non si sbaglia mai.
Attendiamo Weller ancora al confessionale!
Pino Morelli

THE DREAM ACADEMY: REMEMBRANCE DAYS, 1987

Quando The Dream Academy pubblicarono “Remembrance Days”, ovvero la loro seconda fatica discografica, l’attesa era tanta, almeno la mia: dopo il discreto successo (considerato il ruolo delicato e sommesso della band) del debut-album e di un singolo, “Life in a Northern Town”, che suonò parecchio nelle migliori radio anche nostrane, ci si auspicava almeno un ritorno degno, per l’appunto, del debutto. Ieri, 5 stelle per il magazine Rockstar; oggi, 3 stelle di rating da Allmusic. Per me (e da sempre) un meraviglioso esempio di “perfect pop” votato alla mortale immortalità. Risultato? Come il mainstrram si dimenticò in fretta di loro e, presto, per una carriera mai decollata veramente, tuttavia puntellata di perdurevoli ricordi. Se poi io stia qui a rimarcare che una piccola fetta del canto del cigno pinkfloydiano “The Division Bell” sia per opera del leader dei Dream Academy, Nick Laird-Clowes, e che lo stesso David Gilmour fu motivato a produrre il primo e il terzo (ed ultimo album) di questi miei beniamini, non è che sia cosa da poco, non vi pare? Ma il chitarrista dei Pink Floyd non si farà mancare (quasi segretamente, ma si sente…) all’appello neppure nel brano di chiusura di questo “Remembrance Days” uscito nel 1987, e non è altrettanto cosa da poco. Ora che ne sapete di più di questo album scomparso dalla storia del “pop perfetto”, ho già quasi compiuto la mia missione. Ma c’è qualcosa da dire ancora. Ovvero quell’ancora più latente ringraziamento a Paul Simon che spicca tra le note di copertina. Insomma: cosa fecero di tanto speciale i Dream Academy da meritarsi tanta meticolosa attenzione? Sarà solo e sempre l’ascolto a sentenziare la giusta risposta. Un esemplare baroque-pop apparso fuori stagione, in un’epoca dominata dai synth e dalla maledetta plastificazione industriale della musica, l’emergere e il perdurare melodico di questa prova seconda (non certo di minor spessore rispetto alla prima, uscita nel 1985) premiano una band scioltasi in meno di due lustri che noi, fedeli custodi “dei Graal” discografici dispersi nelle teche in vinile, nell’aere di presunti o certi registri akashici e, non di meno, nei nostri cuori, desideriamo evocare nostalgicamente per tutti i puri di cuore, non di meno puristi del pop. Quanta eleganza, quanto stile e che arrangiamenti! Abbiamo fatto giustizia anche stavolta.

Pino Morelli

JOE JACKSON: “NIGHT AND DAY”, 1982

Se devo dire come sempre la verità, questo album meriterebbe il capitolo di un intero ipotetico libro. I motivi di tale ammissione sono molteplici e, addirittura, alcuni di essi sono persino inesplicabili, nonostante non mi manchi la scrittura. Perchè questo è un disco battezzato col profumo dell’estate essendo uscito proprio quarant’anni fa, nel giugno del 1982. Lo giudico soltanto (e sottolineo: SOLTANTO di una spanna sotto il mio già recensito “The Nightfly”, il capolavoro irragiungibile di Donald Fagen.

Perchè “Night and Day” di Joe Jackcon è un altro miracolo scatutito da quel sabbatico anno. Un album straordinariamente formativo per i ragazzi dell’epoca come noi. Un’opera composta da un artista poliedrico e colto, col jazz e lo swing, il funk e il soul nel sangue. Un amico strambo della porta accanto che riuscì, come solo un David Byrne o per l’appunto un Donald Fagen della situazione potevano fare, a condensare tanti generi e differenti epoche e stili musicali in un crogiolo irresistibile di ritmo e melodia in un solo, grandioso album. Il giorno e la notte raccontati nel solco di due lati, rovesci di una stessa medaglia dorata. La A, con una parte oscura e conturbante della fascinosa New York, quartieri ispanici compresi; La B con una parte bianca e nostalgica della Big Apple che non dorme mai. Che capolavoro, a risentirlo ancora oggi: e che singolo, “Steppin Out”, che riuscii a scoprire a soli 16 anni, grazie ancora una volta a “Mister Fantasy”, il popolare programma coevo della RAI condotto dallo storico veejay Carlo Massarini, e che farebbe parte di un’immaginaria, irrinunciabile compilation ufficiale di “Stereo Notte”, altra popolare trasmissione, ma radiofonica dell’emittente di Stato. Joe Jackson sarà anche memore di un altro capolavoro, di una gemma di album successivo a questo, stavolta intitolato “Body & Soul”. Notte e giorno; corpo e anima; sangue e latte, insomma. Sono fortunato ad essere sopravvissuto a soli 16 anni, all’epoca senza un briciolo di fidanzata e senza aver mai trascorso per una sola volta un “cuore di panna” con una partner al chiaro di luna della spiaggia pescarese. Avrei avuto voglia di spezzarmi in due, ascoltando proprio la struggente “Breaking Us in Two”, scioglermi dentro una cioccolata di tristezza con quella canzone di chiusura come ” A Slow Song”. Oppure immedesimarmi nel testo di “Real Men”, mentre le note di ebano e avorio della tastiera di Joe riecheggiano momenti forse uggiosi, sicuramente malinconici di grande caratura. Sarà sempre la solita vecchia storia, e sar pure logorroico e ripetitivo quando continuo a domandarmi che cosa possa rappresentare per un minorenne dell’epoca come me, potermi nutrire con queste canzoni così pure e mature, così serie e meravigliose, per esempio, come quelle contenute in questo album. Ogni volta che ci rifletto, mi vengono i brividi ed un anelito di tristezza a confrontarmi con i giorni nostri. O meglio: con la maggior parte della musica dei giorni nostri. Meno male che siamo stati come le formichine in estate, a raccoglier cibo per inverni (quasi) interminabili, in attesa di “uscire”.

Pino Morelli

STEVIE WONDER: FULFINGNESS FIRST FINALE, 1974

“Fulfillingness’ First Finale” ha compiuto 50 anni nel 2024. Difficile scegliere tra gli album preferiti di Stevie Wonder. Innegabile ergerlo a capolavoro della raffinatezza soul di tutti i tempi. Un manipolo di ospiti da brivido (Michael Sembello, Minnie Ripperton, Impressions, Jackson Five, Jim Gilstrap, e non solo…) per una lista di tracce dipinte nell’arcobaleno, da occhi che non possono più vederlo da una vita. Eppure quegli occhi meriterebbero più di altri di poterne scorgere ogni giorno della sua vita, ogni loro piccola fulgida sfumatura. Che stranezze che commette la vita, non è vero?

Per emozionarsi, per commuoversi, per gioire, per danzare in un crogiolo di stati d’animo pennellati da un artista che, a 24 anni, aveva già stabilito da un po’ i trigger point tra la black music e il pop intagliato nell’ebano (e avorio) senza che nessuno possa, a tutt’oggi, proferire parola, se non per elargire encomi. Insieme a Innervisions, Songs in the Key of Life, Music of my Mind e Talking Book, questo album si salda come sorta di riconciliazione taumaturgica con l’universo extra-terrestre. “Creepin”, “Smile Please” e “It Ain’t No Use” potrebbero essere ridefiniti tranquillamente negli stilemi di un jazz carezzevole e immortale e dovrebbero essere assolutamente insegnati a scuola. “They Won’t Go When I Go”, poi, È musica classica. Ma è ingiusto, aver citato queste senza ricordarne altre, perché siamo di fronte, se non l’abbiamo ancora chiaro, alla beatitudine in chiave animica.
La classe inconfondibile di una leggenda passa anche da questo solco. E non ho bisogno di altre parole per descriverlo. Non ascoltarlo, non averne una copia è quasi un reato.
Pino Morelli