L’occasione è quella di ascoltarmi ogni mercoledì alle ore 23, per due ore dalla web RadiostArt, a questo link: www.radiostart.it. L’invito al Pino Morelli On Air è rivolto a tutti i veri appassionati di buona musica! Grazie!
Archivio dell'autore: Pino Morelli
RUFUS AND CHAKA KHAN: LIVE “STOMPIN AT SAVOY”, 1983
Il ricordo è quello di un appena diciassettenne che si ritrova nella radio (da lui frequentata per la conduzione di un suo programma che egli presenta giornalmente) e anche fra le mani, un album di una cantante ancora a lui sconosciuta (e, per la verità, anche alla maggior parte degli ascoltatori italiani), o per lo meno fino a quel momento – e precisiamolo: ben un anno prima della super hit di “I Feel For You” – ma dotata di un repertorio evidentemente così maturo tanto prodigioso dafarne uscire addirittura un doppio lp dal vivo. Col revisionismo storico de noartri, potremmo dire che ci saremmo dovuti ricordare anche la versione originale di “I’m Every Woman”; ma per me sarebbe stato chiedere troppo, ed evviva la verità!
DONALD FAGEN: “THE NIGHTFLY”, 1982
Mi piace ricordare, mi piace celebrare. Ed è giusto ricordare che questa recensione fu pubblicata originariamente nell’ottobre del 2022 sulla pagina facebook di “Stereo Notte – il Libro”, ottenendo quasi 1000 like e un paio di centinaia di commenti entusiastici a corredo di ci che segue e che pubblico felicemente anche sul mio sito!
Era infatti il giorno in cui si ricordava l’uscita di uno dei 10 album fondamentali per la mia vita, e quindi della personale discografia. Il 1°ottobre 1982 arrivava nei negozi “The Nightfly”, di Donald Fagen, la voce di un gruppo che forse molti di voi curiosi di questo articolo ricorderanno. Per comprendere bene perchè questo disco sia così importante, è giusto capire. Ma per farlo, occorrono delle parole da spendere e, magari, del vostro tempo da impiegare.
Everything But The Girl: “When All’s Well”, 1985
“When All’s Whell”: Un singolo di puro pop a cui sono felicemente legato, per via degli spensierati momenti trascorsi durante gli anni delle dirette (comunemente definiti “programmi”) radio. Era il 1985… Gli Everything But The Girl avevano tirato fuori un secondo album, più rock oriented e quindi con sonorità decisamente differenti rispetto al debutto, che ho sempre adorato per via di quel sapore tutto jazzato, da me sempre apprezzato e conosciuto già poco prima, ai tempi di “Cafe Bleu degli StyleCouncil, quando una all’epoca sconosciuta Tracey Thorn vi cantò una liquorosa slow song da svenimento. Occhio alle due inedite b-side (all’epoca della prima emissione discografica): le nostalgiche e affascinanti chicche intitolate: “Heaven Help Me” e “Kid”.
Nonostante la svolta del gruppo (e persino il netto cambiamento qualitativo in ambito di resa acustica) in verità all’epoca da me non molto gradito, adoro follemente il singolo in questione degli EBTG! Ha un respiro eternamente giovane e fresco, primaverile! Ovviamente da sentire ”quando tutto va bene”, ahahah!
Pino Morelli
CHINA CRISIS: “Working Fire and Steel”, 1983
Tra gli album fondamentali per il percorso narrativo e formativo del synth pop inglese generato negli Anni 80: “Working With Fire and Steel” dei fantastici Chins Crisis che, solo qualche anno dopo, videro il tocco (non sappiamo ancora per quale astrale convergenza, notizie ufficiali a parte) di Walter Becker, alias la metà del glorioso duo degli Steely Dan assieme a Donald Fagen.
Dopo il discreto debutto discografico avvenuto nell’82 (attenzione però: discreto è l’album, ma magnifiche sono alcune delle canzoni in esso contenute!), i China Crisis sfornano questo gioiellino di 33 giri che è accompagnato – caso da evidenziare – da altri e.p. da capogiro che vanno a completare un portafogli di long version ma sopratutto di b-sides così stupende e coloratissime, da gridare quasi al miracolo.
Basti approfondire i 12″ del singolo omonimo all’album, per l’appunto “Working Fire and Steel” (con 2 strumentali da capogiro che rimandano a Cure e Durutti Column…), poi di “Tragedy and Mistery” e del maxi single più famoso e accorato, con la stupenda “Whishful Thinking”, per comprendere di quale patrimonio artistico stiamo trattando.
Risentirli dopo decenni mi fa tornare sicuramente adolescente, ma soprattutto conscio, oggigiorno, di che capitale avevamo a disposizione, senza nemmeno quasi rendercene conto!“BREAKAWAY”, di Art Garfunkel, 1975
“Breakaway”: Compie mezzo secolo tondo tondo il secondo album solistico di Art Garfunkel. Uscito nell”ottobre del 1975 in USA, l’opera del cantante, ormai orfano del suo compagno di avventure e successi musicali Paul Simon, non brilla di luce propria, pur facendosi portavoce – più di altre sue opere solistiche – di un giusto compendio sentimental-popolare che da sempre si presta alla voce di un cantante dalle indiscusse peculiarità vocali e che, soprattutto, ha fatto la storia della “Musica Leggera”.
Cos’ha quindi l’LP “Breakaway” di tanto speciale da essere ricordato da me? La forza delle sue azzeccate interpretazioni. Che, in altre opere hanno lasciato spazio soltanto a momenti melensi e mancate aderenze qualitative. Un album, tra l’altro, toccato da singolarità non indifferente, dato che la prima traccia del lato B offre (e si troverà inclusa, parallelamente all’uscita coeva di un ennesimo stupendo album solistico di Simon e di un greatest hits della coppia) il meraviglioso ritorno, una tantum, della coppia con il prodigioso singolo “My Little Town” (finito ovviamente nella top 10 della classifica ufficiale USA) scritto da un motivatissimo Paul Simon e interpretato con solenne partecipazione corale dai due incredibili protagonisti di una delle stagioni più luminose del patrimonio pop mondiale.
L’album di Garfukel si apre poi con una pertinente e toccante cover di Stevie Wonder: “I Believe (When I Fall In Love It Will Be Forever) che conferma il talento interpretativo di un Garfunkel in grande melange artistico. Prova attestata da un altro singolo (questo finì invece n.1 in Inghilterra e ancora top ten nel Billboard U.S.A.) intitolato: “I Only Have Eyes For You” che tutti ricordano nella celeberrima prima versione del 1959 (facente parte anche della nutrita e storica raccolta-O.S.T. di “American Graffiti”) cantata dai Flamingos. Nella traccia omonima dell’album, “Breakaway” per l’appunto, non può passare inosservata la presenza di Crosby & Nash (assieme a Bruce Johnston dei Beach Boys) nel coro di una canzone non certo miracolosa ma molto bella. Così come l’altra ennesima delicata cover, “Disney Girls” che fu proprio dei Beach Boys e che per la quale ancora Johnston dà manforte con la sua firma vocale. Tralasciando l’autentica pecora nera dell’album, ovvero il prescindibile rifacimento di “Agua de Marco” di Jobim (veramente di cattivo gusto sia vocalmente, sia come arrangiamento), è in un’altra cover che il Garfunkel eccelle notevolemente, grazie alla classicissima “99 Miles from L.A.” di Hal David & Albert Hammond, che fu portata al successo paradossalmente proprio nello stesso anno da Hammond, decretandosi come uno dei pezzi più ricantati da molti altri artisti (da Iglesias a Nancy Sinatra) e trasmessi da sempre nelle hit radio. In definitiva, qualcuno a sua ragione potrebbe anche dire che molte delle opere solistiche di Art Garfunkel (privato della forza compositiva del suo ex esimio collega) siano idealmente preferibili come musica “da ascensore” o come sottofondo da RSA, e ci può anche stare, ironicamente o meno parlando. Ma sfido chiunque a darmi un altro, un solo altro album di soft rock maschile che possa sostituirsi a questo, facendo sempre i dovuti distinguo tra artisti e sottogeneri.
Perchè, come sempre, il tempo passa, ma la musica resta. E al momento giusto, “Breakaway” fa il suo dovere, magari e perché no, abbracciati al proprio partner, dove non manchi mai il puro sentimento, per chi sa e riesce a coltivarne ancora gli umori. Pino Morelli, 2025
Style Council: “Confessions of a Pop Group”, 1988
Ultimo “effettivo” album degli Style Council, non considerando l’esperienza all’epoca inedita dell’album di genere house-garage rifiutato dalla casa discografica (e per me fece bene…) poi per inserito nel fantastico box definitivo.
THE DREAM ACADEMY: REMEMBRANCE DAYS, 1987
Quando The Dream Academy pubblicarono “Remembrance Days”, ovvero la loro seconda fatica discografica, l’attesa era tanta, almeno la mia: dopo il discreto successo (considerato il ruolo delicato e sommesso della band) del debut-album e di un singolo, “Life in a Northern Town”, che suonò parecchio nelle migliori radio anche nostrane, ci si auspicava almeno un ritorno degno, per l’appunto, del debutto. Ieri, 5 stelle per il magazine Rockstar; oggi, 3 stelle di rating da Allmusic. Per me (e da sempre) un meraviglioso esempio di “perfect pop” votato alla mortale immortalità. Risultato? Come il mainstrram si dimenticò in fretta di loro e, presto, per una carriera mai decollata veramente, tuttavia puntellata di perdurevoli ricordi. Se poi io stia qui a rimarcare che una piccola fetta del canto del cigno pinkfloydiano “The Division Bell” sia per opera del leader dei Dream Academy, Nick Laird-Clowes, e che lo stesso David Gilmour fu motivato a produrre il primo e il terzo (ed ultimo album) di questi miei beniamini, non è che sia cosa da poco, non vi pare? Ma il chitarrista dei Pink Floyd non si farà mancare (quasi segretamente, ma si sente…) all’appello neppure nel brano di chiusura di questo “Remembrance Days” uscito nel 1987, e non è altrettanto cosa da poco. Ora che ne sapete di più di questo album scomparso dalla storia del “pop perfetto”, ho già quasi compiuto la mia missione. Ma c’è qualcosa da dire ancora. Ovvero quell’ancora più latente ringraziamento a Paul Simon che spicca tra le note di copertina. Insomma: cosa fecero di tanto speciale i Dream Academy da meritarsi tanta meticolosa attenzione? Sarà solo e sempre l’ascolto a sentenziare la giusta risposta. Un esemplare baroque-pop apparso fuori stagione, in un’epoca dominata dai synth e dalla maledetta plastificazione industriale della musica, l’emergere e il perdurare melodico di questa prova seconda (non certo di minor spessore rispetto alla prima, uscita nel 1985) premiano una band scioltasi in meno di due lustri che noi, fedeli custodi “dei Graal” discografici dispersi nelle teche in vinile, nell’aere di presunti o certi registri akashici e, non di meno, nei nostri cuori, desideriamo evocare nostalgicamente per tutti i puri di cuore, non di meno puristi del pop. Quanta eleganza, quanto stile e che arrangiamenti! Abbiamo fatto giustizia anche stavolta.
Pino Morelli
JOE JACKSON: “NIGHT AND DAY”, 1982
Se devo dire come sempre la verità, questo album meriterebbe il capitolo di un intero ipotetico libro. I motivi di tale ammissione sono molteplici e, addirittura, alcuni di essi sono persino inesplicabili, nonostante non mi manchi la scrittura. Perchè questo è un disco battezzato col profumo dell’estate essendo uscito proprio quarant’anni fa, nel giugno del 1982. Lo giudico soltanto (e sottolineo: SOLTANTO di una spanna sotto il mio già recensito “The Nightfly”, il capolavoro irragiungibile di Donald Fagen.
Perchè “Night and Day” di Joe Jackcon è un altro miracolo scatutito da quel sabbatico anno. Un album straordinariamente formativo per i ragazzi dell’epoca come noi. Un’opera composta da un artista poliedrico e colto, col jazz e lo swing, il funk e il soul nel sangue. Un amico strambo della porta accanto che riuscì, come solo un David Byrne o per l’appunto un Donald Fagen della situazione potevano fare, a condensare tanti generi e differenti epoche e stili musicali in un crogiolo irresistibile di ritmo e melodia in un solo, grandioso album. Il giorno e la notte raccontati nel solco di due lati, rovesci di una stessa medaglia dorata. La A, con una parte oscura e conturbante della fascinosa New York, quartieri ispanici compresi; La B con una parte bianca e nostalgica della Big Apple che non dorme mai. Che capolavoro, a risentirlo ancora oggi: e che singolo, “Steppin Out”, che riuscii a scoprire a soli 16 anni, grazie ancora una volta a “Mister Fantasy”, il popolare programma coevo della RAI condotto dallo storico veejay Carlo Massarini, e che farebbe parte di un’immaginaria, irrinunciabile compilation ufficiale di “Stereo Notte”, altra popolare trasmissione, ma radiofonica dell’emittente di Stato. Joe Jackson sarà anche memore di un altro capolavoro, di una gemma di album successivo a questo, stavolta intitolato “Body & Soul”. Notte e giorno; corpo e anima; sangue e latte, insomma. Sono fortunato ad essere sopravvissuto a soli 16 anni, all’epoca senza un briciolo di fidanzata e senza aver mai trascorso per una sola volta un “cuore di panna” con una partner al chiaro di luna della spiaggia pescarese. Avrei avuto voglia di spezzarmi in due, ascoltando proprio la struggente “Breaking Us in Two”, scioglermi dentro una cioccolata di tristezza con quella canzone di chiusura come ” A Slow Song”. Oppure immedesimarmi nel testo di “Real Men”, mentre le note di ebano e avorio della tastiera di Joe riecheggiano momenti forse uggiosi, sicuramente malinconici di grande caratura. Sarà sempre la solita vecchia storia, e sar pure logorroico e ripetitivo quando continuo a domandarmi che cosa possa rappresentare per un minorenne dell’epoca come me, potermi nutrire con queste canzoni così pure e mature, così serie e meravigliose, per esempio, come quelle contenute in questo album. Ogni volta che ci rifletto, mi vengono i brividi ed un anelito di tristezza a confrontarmi con i giorni nostri. O meglio: con la maggior parte della musica dei giorni nostri. Meno male che siamo stati come le formichine in estate, a raccoglier cibo per inverni (quasi) interminabili, in attesa di “uscire”.
Pino Morelli
STEVIE WONDER: FULFINGNESS FIRST FINALE, 1974
“Fulfillingness’ First Finale” ha compiuto 50 anni nel 2024. Difficile scegliere tra gli album preferiti di Stevie Wonder. Innegabile ergerlo a capolavoro della raffinatezza soul di tutti i tempi. Un manipolo di ospiti da brivido (Michael Sembello, Minnie Ripperton, Impressions, Jackson Five, Jim Gilstrap, e non solo…) per una lista di tracce dipinte nell’arcobaleno, da occhi che non possono più vederlo da una vita. Eppure quegli occhi meriterebbero più di altri di poterne scorgere ogni giorno della sua vita, ogni loro piccola fulgida sfumatura. Che stranezze che commette la vita, non è vero?