RUFUS AND CHAKA KHAN: LIVE “STOMPIN AT SAVOY”, 1983

Il ricordo è quello di un appena diciassettenne che si ritrova nella radio (da lui frequentata per la conduzione di un suo programma che egli presenta giornalmente) e anche fra le mani, un album di una cantante ancora a lui sconosciuta (e, per la verità, anche alla maggior parte degli ascoltatori italiani), o per lo meno fino a quel momento – e precisiamolo: ben un anno prima della super hit di “I Feel For You” – ma dotata di un repertorio evidentemente così maturo tanto prodigioso dafarne uscire addirittura un doppio lp dal vivo. Col revisionismo storico de noartri, potremmo dire che ci saremmo dovuti ricordare anche la versione originale di “I’m Every Woman”; ma per me sarebbe stato chiedere troppo, ed evviva la verità!

È così che ho conosciuto “Stompin at the Savoy”, uscito ufficialmente il 10 agosto 1983 negli USA ed approdato anche da noi, frangia di ragazzi desiderosi di una marcia in più, di una spinta funk-soul e, diciamola tutta, anche qualcosa che si distaccasse ogni tanto da quel synth-pop imperante persino ormai nella black music. Avendo conosciuto già la Dazz Band, i Fatback e compagnia bella, no, non conoscevo altresì i Rufus. Che, attenzione, giunsero alle mie orecchie anche mesi prima del ritorno in pompa magna di Tina Turner, tanto per associazione vocale, vitale e capelluta con Chaka. E sono felice di averlo imparato ben prima che il sottoscritto raggiungesse la maggiore età. Non era facile conoscere a quei tempi certe cose, ed è inutile che lo ricordi agli ascoltatori del mitico programma Rai “Stereo Notte”, unico faro nell’etere nel buio della radiofonia coeva. Erano gli ultimi gemiti gloriosi degli Earth Wind & Fire, mentre nelle mie orecchie giravano i ritrovati Benson di “In Your Eyes”, o il Jarreau di “Boogie Down” e “Mornin”, giusto per intersecare il tutto con alcuni pertinenti paragoni.
Questo doppio vinile è ricordato anche (o soprattutto, a seconda delle opinioni) grazie ad un ricordo su tutti, e che ricordo: l’inedito registrato in studio, la perla nera di tutti gli anni ’80, uno dei brani “black” più originali che la discografia possa ricordare: “Ain’t Nobody”, vincitore poi nell’84 di un Grammy Award come “Best R&B Performance”! Su quelle scritte bianche in fondo rosa all’interno della confezione a doppia apertura dei vinili, poco si scorgeva la generosa e pur lunga dedica di Quincy Jones, firmandosi con un introduttivo “a fan”, il che è tutto dire. Basta sentire i titoli di coda del monumentale documentario di Quincy del 2018 contenente lo splendido inedito “Keep Reachin” (interpretato proprio da Chaka) per capire l’inossidabile amicizia che lega questi grandiosi nomi dello scenario musicale afroamericano, patrimonio dell’umanità. A proposito, una curiosa storia sviluppò il karma di “Ain’t Nobody”, se pensiamo che sarebbe potuto finire addirittura nel glorioso album “Thriller” di Michael Jackson, soltanto se l’autore-tastierista di Rufus non lo avesse offerto come lancio per la band e quindi per il doppio in questione. Perchè proprio Quincy aveva invece bussato alla porta del convento per accaparrarselo… Cosa ne penso? Meglio che sia andato per la voce graffiante di Chaka!
Tornando all’album, la parte dal vivo è eccezionale nel suo offrire un sublime compendio di funk ed R&B, sciorinando brani davvero senza tempo. Il quarto lato, quello registrato in studio che si apre con la già citata hit apprezzatissima anche da queimoltissimi dj che se ne intendono di cose belle, offre un seguito eccellente con il tris che chiude, a mio modesto avviso, un periodo incredibile, siglando la fine di un certo sound, a fronte della provvisoria invasione plastificata che rovinò gran parte di artisti e di musica del periodo successivo all’83, almeno per quanto riguarda questo genere. “One Million Kisses”, “Try a Little Understanding” e lo standard che fu di Etta James “Don’t go the Strangers”, qui magnificamente riproposto dalla cantante originaria di Chicago, si potranno apprezzare per la loro eccellente produzione e groove.
Nella musica dei Rufus c’era sostanza, sangue nelle vene, energia primordiale e tanta esperienza metabolizzata in anni di ascolto dei padri fondatori, dal blues in poi. Chaka aveva già dato tanto, nonostante avesse appena compiuto soltanto trent’anni all’epoca di questo live. Oggi, è ancora una splendida settantenne. 19 ne aveva quando debuttò nel ’72 con il suo gruppo, per poi decollare autonomamente, attraversando ogni genere le si qualificasse elegantemente come un vestito attillato, orbitando tra la Disco e il Funky, per poi approdare ad un successo più commerciale dance.
Era giusto salutare questo pur storico doppio album registrato al Savoy Theatre di New York pensando che, quando gira un basso a palla con su una base ritmica da capogiro e quando i fiati rivestono le pareti del muro sonoro affiancandosi ad una voce che ti fa persino girare la testa, niente si conserva meglio. Ricordi per me formativi, antiossidanti, nutrienti. Meravigliosamente impressivi di un’epoca che ci ha dato tantissimo.
Pino Morelli

THE DREAM ACADEMY: REMEMBRANCE DAYS, 1987

Quando The Dream Academy pubblicarono “Remembrance Days”, ovvero la loro seconda fatica discografica, l’attesa era tanta, almeno la mia: dopo il discreto successo (considerato il ruolo delicato e sommesso della band) del debut-album e di un singolo, “Life in a Northern Town”, che suonò parecchio nelle migliori radio anche nostrane, ci si auspicava almeno un ritorno degno, per l’appunto, del debutto. Ieri, 5 stelle per il magazine Rockstar; oggi, 3 stelle di rating da Allmusic. Per me (e da sempre) un meraviglioso esempio di “perfect pop” votato alla mortale immortalità. Risultato? Come il mainstrram si dimenticò in fretta di loro e, presto, per una carriera mai decollata veramente, tuttavia puntellata di perdurevoli ricordi. Se poi io stia qui a rimarcare che una piccola fetta del canto del cigno pinkfloydiano “The Division Bell” sia per opera del leader dei Dream Academy, Nick Laird-Clowes, e che lo stesso David Gilmour fu motivato a produrre il primo e il terzo (ed ultimo album) di questi miei beniamini, non è che sia cosa da poco, non vi pare? Ma il chitarrista dei Pink Floyd non si farà mancare (quasi segretamente, ma si sente…) all’appello neppure nel brano di chiusura di questo “Remembrance Days” uscito nel 1987, e non è altrettanto cosa da poco. Ora che ne sapete di più di questo album scomparso dalla storia del “pop perfetto”, ho già quasi compiuto la mia missione. Ma c’è qualcosa da dire ancora. Ovvero quell’ancora più latente ringraziamento a Paul Simon che spicca tra le note di copertina. Insomma: cosa fecero di tanto speciale i Dream Academy da meritarsi tanta meticolosa attenzione? Sarà solo e sempre l’ascolto a sentenziare la giusta risposta. Un esemplare baroque-pop apparso fuori stagione, in un’epoca dominata dai synth e dalla maledetta plastificazione industriale della musica, l’emergere e il perdurare melodico di questa prova seconda (non certo di minor spessore rispetto alla prima, uscita nel 1985) premiano una band scioltasi in meno di due lustri che noi, fedeli custodi “dei Graal” discografici dispersi nelle teche in vinile, nell’aere di presunti o certi registri akashici e, non di meno, nei nostri cuori, desideriamo evocare nostalgicamente per tutti i puri di cuore, non di meno puristi del pop. Quanta eleganza, quanto stile e che arrangiamenti! Abbiamo fatto giustizia anche stavolta.

Pino Morelli

STEVIE WONDER: FULFINGNESS FIRST FINALE, 1974

“Fulfillingness’ First Finale” ha compiuto 50 anni nel 2024. Difficile scegliere tra gli album preferiti di Stevie Wonder. Innegabile ergerlo a capolavoro della raffinatezza soul di tutti i tempi. Un manipolo di ospiti da brivido (Michael Sembello, Minnie Ripperton, Impressions, Jackson Five, Jim Gilstrap, e non solo…) per una lista di tracce dipinte nell’arcobaleno, da occhi che non possono più vederlo da una vita. Eppure quegli occhi meriterebbero più di altri di poterne scorgere ogni giorno della sua vita, ogni loro piccola fulgida sfumatura. Che stranezze che commette la vita, non è vero?

Per emozionarsi, per commuoversi, per gioire, per danzare in un crogiolo di stati d’animo pennellati da un artista che, a 24 anni, aveva già stabilito da un po’ i trigger point tra la black music e il pop intagliato nell’ebano (e avorio) senza che nessuno possa, a tutt’oggi, proferire parola, se non per elargire encomi. Insieme a Innervisions, Songs in the Key of Life, Music of my Mind e Talking Book, questo album si salda come sorta di riconciliazione taumaturgica con l’universo extra-terrestre. “Creepin”, “Smile Please” e “It Ain’t No Use” potrebbero essere ridefiniti tranquillamente negli stilemi di un jazz carezzevole e immortale e dovrebbero essere assolutamente insegnati a scuola. “They Won’t Go When I Go”, poi, È musica classica. Ma è ingiusto, aver citato queste senza ricordarne altre, perché siamo di fronte, se non l’abbiamo ancora chiaro, alla beatitudine in chiave animica.
La classe inconfondibile di una leggenda passa anche da questo solco. E non ho bisogno di altre parole per descriverlo. Non ascoltarlo, non averne una copia è quasi un reato.
Pino Morelli